CAGNACCIO DI SAN PIETRO
Il richiamo della Nuova Oggettività
dal 6 maggio al 27 settembre 2015
Venezia, ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna
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A ventiquattro anni dalla retrospettiva al Museo Correr, Cagnaccio di San Pietro (1897-1946) torna a casa: nella sua Venezia e in quel museo – Ca’ Pesaro – dove mosse i primi passi ufficiali della sua carriera.
Il piccolo ma intenso tributo della Fondazione Musei Civici di Venezia a un grande e ormai internazionalmente riconosciuto campione del Realismo magico e del ritorno alla classicità, tra gli Anni Venti e Trenta, si collega espressamente alla mostra sulla Neue Sachlichkeit in corso al Museo Correr (Nuova Oggettività – Arte in Germania al tempo dela Repubblica di Weimar 1919 – 1933, fino al 30 agosto), giacché “la visione iperrealistica di Cagnaccio di San Pietro è forse”, come ha scritto Claudia Gian Ferrari, tra i principali artefici del suo rilancio, “la più apparentabile agli schemi linguistici della Nuova Oggettività tedesca”. Una selezione di capolavori – curata da Dario Biagi con la collaborazione di Elisabetta Barisoni – illustra il ventaglio tematico di questo maestro schivo e appassionato, scomparso prematuramente all’età di quarantanove anni.
Dall’audace nudo di Primo denaro, parte di una “scandalosa” trilogia del 1928, a una potente serie di ritratti di uomini, donne e bambini, tra cui l’inedito Ritratto di Giuseppina Dalla Pasqua; da alcuni smaglianti esempi di natura morta ai soggetti di carattere religioso e allegorico come La tempesta e La furia che suggellano, quasi sovrapponendosi, l’inizio e la fine della sua intensa parabola.
Ribelle, anticonformista, Cagnaccio si sente un outsider e agisce come tale, apprezzato e amato più dai colleghi che dalla critica che, in vita, non lo comprende. La Tempesta, datata 1920, segna “la riconquista della bellezza classica da parte di Cagnaccio” dopo una giovanile infatuazione futurista e il recupero dei capisaldi della tradizione pittorica; ma anche il suo approdo alla fede – di fronte a un dramma familiare – e la riscoperta dei valori umili e semplici dei compaesani di San Pietro in Volta, borgo dell’isola di Pellestrina.
Un “ritorno all’ordine” che non lo porta tuttavia sul carro del novecentismo sarfattiano, sia per ragioni “ambientali” – in una Venezia che si rifà comunque alla tradizione del colorismo cinque-settecentesco – sia per il rifiuto sistematico di Cagnaccio d’aderire a manifesti e movimenti e, infine, per la sua avversione al fascismo: un’avversione viscerale prima ancora che ideologica.
Alla Biennale del ’28, ove siede in commissione Margherita Sarfatti, propone provocatoriamente l’opera Dopo l’orgia – ovviamente respinta – in cui fustiga la deriva morale del regime, e qualche anno dopo rifiuta platealmente la tessera del Partito fascista; talora deve fingersi squilibrato e accettare un giorno o due di ricovero a San Servolo, il manicomio dei veneziani, per non scontare in carcere le sue dichiarazioni anti-regime, oppure si fa ricoverare all’ospedale del Lido.
Durante la Resistenza dà rifugio, nella sua amata casa in Calle del Zucchero a partigiani e altri antifascisti ricercati, tra cui i fratelli Armando e Danilo Gavagnin e Gigetto Tito, figlio di Ettore e suo amico fraterno. Per quanto appartato e refrattario a ogni aggregazione artistica, Cagnaccio è tuttavia membro riconosciuto di una pattuglia – i Realisti magici – minoritaria ma quotata. Casorati, che non a caso indica a Cagnaccio la direzione da prendere passando “dalla fase simbolista e Liberty, sotto il segno secessionista di Klimt, al classicismo moderno”, è – come scrive Biagi – il primo dei suoi modelli. Il riferimento alle sue opere attraversa tutto il ventaglio tematico della sua produzione sfociando spesso in una citazione esplicita, come in due dipinti presenti in questa mostra: Natura morta con uova e Maternità I.
Anche il Virgilio Guidi di In Tram, ammirato nella sua prima Biennale, quella del ’24, suggestiona profondamente Cagnaccio che risulta subito vicino ai rappresentanti più nordici e taglienti di quegli anno, i “duri”, come li chiama Renato Barilli: Dudreville e Oppi, uno veneziano, l’altro di derivazione klimtiana, non a caso assimilati prima di lui alla Nuova Oggettività tedesca. E poi Antonio Donghi. Affiora nella sua pittura vitrea, chiaroscurale e radicalmente lineare anche una parentela diretta con i pittori lagunari del ‘400: i “più spigolosi” – Bartolomeo Vivarini, Carlo Crivelli, Jacopo da Valenza, Andrea da Murano – e altrettanto evidenti sono i rimandi (specie nei dipinti di soggetto religioso) a Bellini, Mantegna e Durer.
Con De Maria, Sacchi e Dino Martens, Cagnaccio rappresenta dunque il corrispettivo lagunare della Nuova Oggettività. De Maria è geneticamente tedesco (sua madre è di Brema) ed è figlio d’arte di un pittore simbolista; Sacchi si è formato all’Accademia di Monaco. Entrambi fin dagli esordi sono inclini a quell’onirismo, parallelo o derivato dal realismo magico che assumerà un rilievo autonomo negli Anni Quaranta, attraendo pure l’ultimo Cagnaccio. Eppure c’è in Cagnaccio una sostanziale distanza dai tedeschi: un sentimento d’adesione, quando non di dichiarata appartenenza all’umanità raffigurata, che lo rende partecipe e compassionevole.
Nel suo sguardo non vi è la volontà di deformare, di mettere in caricatura. I suoi soggetti d’elezione (anche se non mancano i ritratti di alto borghesi) sono il popolo, i pescatori della sua Pellestrina, gli ultimi, i diseredati. Né si avverte in lui l’attrazione per il morboso e il malato, caratteristica di Schad. “Cagnaccio – scrive Biagi – è il più oggettivo dei realisti magici e, quando è mosso da simpatia-empatia verso i suoi modelli, riesce a restituirli, ancorché congelati in un’atmosfera irreale con qualche tratto di freschezza e spontaneità” come nel Ritratto di Giuseppina Dalla Pasqua “vera e sorprendente primizia di questa mostra”: forse l’unico ritratto sorridente di tutta la produzione cagnaccesca.
E laddove invece, come in alcune celebri figure femminili allo specchio, dipinge volti malinconici o straniati e sguardi assenti è perché tende alla metafora. Solo nella rappresentazione dell’infanzia il suo realismo può apparire impietoso. Dal ritratto di Liliana, qui esposto, fino agli ultimi neonati, raffigurati come bambolotti disarticolati nei loro lettini d’ospedale: sempre fedele al vero.
La compassione e l’empatia verso i suoi soggetti, il suo populismo si intensificano con il sopraggiungere della malattia, che lo condurrà precocemente alla tomba: un’ulcera recidivante che degenererà in neoplasia. Subisce varie operazioni e la sua vita diventa un calvario. Se prima fustigava, con sprezzo del pericolo, il marcio della società ed era stato il primo a usare il nudo radicale per staffilare i costumi borghesi, ora si moltiplicano, accanto alle immagini di derelitti e plebei, di vecchi e bambini assorti nelle loro banali occupazioni quotidiane, le nature morte smaltate da gran virtuoso.
Spariscono i nudi peccaminosi, mentre le scene di vita domestica, familiare e popolare assumono una connotazione sempre più spirituale, al limite dell’edificante. Non è un caso che Hitler, che di lì a poco bandirà i dipinti della Nuova oggettività come arte degenerata, si innamori di un suo ritratto di giovane vagabondo, Il randagio, e pretenda a tutti i costi di acquistarlo alla Biennale del ’34. E non per nulla l’Osservatore romano elogia, nel ’36, “il suo passato risanato, i suoi intendimenti nuovi, il suo atto di fede nel Dio onnipotente”.
Un crescente fervore religioso di Cagnaccio, che si concreta negli ultimi anni in una serie di Madonne addolorate e notturne, di Cristi fosforescenti e di metafore eucaristiche e della Passione, non senza allusione alla propria vicenda.
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A cura di Dario Biagi
Con la collaborazione di Elisabetta Barisoni
Direzione scientifica: Gabriella Belli
Progetto di allestimento: Daniela Ferretti