La mostra Terza dimensione. Artisti per Ca’ Pesaro presenta, nell’androne monumentale del museo, opere pervenute in dono alla Galleria negli ultimi quattro anni, che vanno ad integrare la collezione già di per sé ricca, come è noto, di importanti sculture italiane (M. Rosso, Wildt, A. Martini, Messina, Viani) e straniere (Rodin, Klinger, Minne, Zadkine fino a Oldenburg) e che pertanto contribuiscono a rendere più completa la rassegna del XX secolo.
Gli inviti a donazione rivolti ad artisti o eredi hanno fatto riferimento soprattutto all’area veneta così da colmare almeno alcune lacune “storiche” nel panorama della nostra scultura della seconda metà del XX secolo. E’ il caso di Marta Sammartini (1900 – 1954), un’artista che negli anni fra le due guerre è stata tra le poche donne a dedicarsi alla scultura con risultati di alto livello. Riscoperta di recente, entra a buon diritto a Ca’ Pesaro con un marmo come Medusa pontinia, forse il suo capolavoro, esposto alla Biennale del 1938: un nudo femminile al vero nel quale la tradizione classica è ricavata con una grazia tutta veneta, quasi canoviana.
Verranno esposte alcune terrecotte policrome, facenti parte della donazione Toni Lucarda (1904 – 1992), risalenti agli anni ’30 e ’40 quando lo scultore veneziano, eccellente ritrattista, divenne famoso per l’impronta di magico realismo che caratterizza la sua opera. Le quattro sculture scelte da una ricca donazione dei famigliari confermano a tanti anni di distanza il fascino della sua poetica.
Risale invece agli anni ’50 La bagnante, il grande gesso che è forse tra le opere più importanti di Giuseppe Romanelli (1916 – 1982), lo scultore veneziano noto per l’impegno con cui ha tenuto fede all’impianto figurativo sfiorando però in opere come questa, per essenzialità di forme e novità ideativa, le tematiche proprie dello spazialismo.
Un gruppo di opere è invece rappresentativo di quell’area di artisti veneti della ceramica che dagli anni ’50 in poi hanno operato in ambito scultoreo: Pompeo Pianezzola, Alessio Tasca, Federico Bonaldi e Candido Fior sono tra i più importanti e tra coloro che già dagli anni ’50 hanno partecipato alle Biennali contribuendo a fare del Padiglione Venezia un centro di eccellenza delle arti decorative e del design. Formatisi all’Istituto d’Arte e all’Accademia di Venezia hanno rinnovato a partire dagli anni ’60 la scultura veneta ispirandosi all’esempio di Martini e di Leoncillo. Presenti nei più importanti musei europei dedicati alla ceramica sperimentale, la loro opera è ora finalmente documentata anche a Ca’ Pesaro: Pompeo Pianezzola (1925) con una delle sue grandi lastre nere, sorta di in-folio che talora l’artista piega su se stesso fino ad ottenere i famosi libri-oggetto, Alessio Tasca (1929) con una scultura, Cosmagon (1992), ottenuta per estrusione, dove l’artista nello scolpire una creta già industrialmente preformata ha individuato una terza via tra plastica e scultura.
Federico Bonaldi (1933), dona un recentissimo lavoro rappresentativo della sua inconfondibile vena fabulatoria: si conferma narratore e fustigatore, intrattenitore e polemista, uno dei pochi artisti che oggi intendono ancora praticare la satira e divertire denunciando.
Candido Fior (1942) ci ha consegnato Campiello (1970), un’opera al limite tra artigianato sublime e arte concettuale, ispirata agli spazi incantati dei campielli veneziani: prima di approdare alle opere e alle installazioni degli anni ’90, Fior è stato l’interprete di una nuova stagione della ceramica veneta, intrisa di sogni e dolcezze agresti.
Alle opere dei “ceramisti” veneti si aggiunge, tra i doni, la scultura policroma di Lee Babel (1940), l’artista tedesca che da molti anni ha un laboratorio anche in Veneto e che nelle opere recentemente esposte nel chiostro veneziano di S. Giuseppe di Castello si mostra orientata a coniugare la lezione del Bauhaus con la tradizione delle maioliche rinascimentali italiane.
Con Mino Trafeli (1922), artista toscano noto per essere stato uno dei protagonisti della scultura informale italiana negli anni ’50 e ’60, sono il marmo e l’alabastro ad emergere nell’opera Dialogo precario di due ciechi su una montagna; Trafeli, che ha avuto una sala personale alla Biennale del 1995, è maestro del gesto teatrale ed improvviso e riesce ad accumulare anche in uno spazio tridimensionale ridotto, come il nostro, l’energia incontenibile della materia.
Anche Natalino Andolfatto (1933), artista bassanese formatosi all’Ecole de Beaux Arts di Parigi, è ora presente con un marmonel nostro museo che già ospita le sculture del suo maestro russo-parigino, Ossyp Zadkine. Fleur (1990) è opera caratteristica del suo ideale costruttivo, in cui trovano forma sia la grande tradizione cubo-futurista sia una sfida allo scetticismo verso la scultura monumentale.
Evocativa della simbolica delle forme primordiali è invece buona parte del lavoro di Mirella Bentivoglio (1922) che nel Hyper-Ovum spaziale sviluppa una tematica presente anche in alcuni suoi libri-oggetto. Protagonista fin dagli anni ’60 della poesia visiva, è particolarmente interessata e incisiva su tutto quanto si può esprimere “tra linguaggio e immagine”.
Pino Guzzonato (1941) ha sperimentato i materiali più vari, dal legno al ferro, dal plexiglas al pane, perché tutto è inteso come segno. Ma è la carta, da lui direttamente ricavata da stoffe o legni pregiati, a costituire il suo medium di riferimento, soprattutto nei “calchi”, come nel caso di Ianua per Ca’ Pesaro, ma anche delle ultime opere esposte il mese scorso al Mart di Rovereto.
Il veronese Pino Castagna (1932) è scultore conosciuto in Europa Africa e America Latina per i suoi interventi di grandi e talora colossali dimensioni e poteva perciò essere presente nelle collezioni di Ca’ Pesaro solo con un modello in scala ridotta che attesta comunque il suo specifico contributo nella direzione di un astrattismo intriso di forti suggestioni ancestrali e simboliche. E’ il caso di Filo spinato (1984), modello per il momento alla Shoah di Gerusalemme.
L’inglese Michael Noble (1919 – 1993), italiano d’adozione, ha condiviso con Castagna l’esperienza veronese di Villa Borletti (ceramiche per e con i malati mentali) negli anni ’60; legato a Venezia nel primo dopoguerra dall’amicizia di Peggy Guggenheim e della famiglia Volpi, ha coltivato la scultura misurandosi coraggiosamente con i suoi maestri, Moore e Chadwick. Il bronzo che ci dona Lucio Pozzi (Marisa, 1952) è ispirato ad una famosa ballerina della Fenice dei primi anni ’50.
Anche Fernando Botero (1932) ha recentemente donato a Ca’ Pesaro Testa neoclassica, più conosciuta rispetto alle altre sculture e già da alcuni mesi esposta al piano terreno del Palazzo.