Ca' Pesaro

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PAOLO PENNISI. Identità e potere. Allegorie pittoriche.

Incontro con l’artista: segno, colore, progetto

Incontro con l’artista: segno, colore, progetto

L’artista comunica il suo sentire e il suo operare confrontandosi con gli studenti del Dipartimento di storia e critica delle arti del prof. Giuseppe Mazzariol durante una lezione tenuta nel 1988 all’università di Venezia
… considero questa iniziativa di grande valore per uno come me, che vi è stato presentato come un artista che non ritiene di doversi chiudere solo nel proprio studio per produrre oggetti, ma che crede nel valore dell’informazione culturale, dell’aggiornamento attraverso la scuola, attento cioè al meccanismo che genera la conoscenza di ciò che si va producendo e di quello che mette in moto l’attività di chi dovrà recepire e poi trasmutare le cose.
Questa esperienza può favorire sia chi produce l’oggetto sia chi domani poi dovrà proporre alla società le cose che noi diciamo, quindi entriamo subito nel tema che ricordava il prof. Mazzariol cioè quanto il linguaggio artistico in questo caso, ma potremmo parlare anche credo del linguaggio musicale moderno, è realmente utile e necessario alla società.
Io non mi sento, come ricordava il prof. Mazzariol, un artista “fuori tempo”, cioè non ho mai rinunciato a credere che esiste un contributo, proprio di chi ha l’intelligenza e la capacità e la sensibilità da esprimere, dovuto alla società a cui appartiene, quindi la sola opera non basta ma è necessario anche vivere l’esperienza che viene colta giorno per giorno da tutti gli altri.
Non credo che in questa occasione, ad esempio, sia l’artista che viene a spiegare cose che voi non sapete, piuttosto mi interessa cogliere ciò che voi, in senso più generale, non come persone fisiche individuate una ad una, ma come gruppo sociale che esprimete, come classe giovanile che viene a costruire la società del domani, può darmi rispetto alle esperienze che io vi porto sulla tavola, sul pezzo di carta.
Io sento molto questa mancanza di un’arte che sia utile, di un linguaggio, la deprivazione di senso per un lavoro che viene fatto nello studio e poi rimane per gli addetti ai lavori.
Credo che la più grande colpa della società di oggi sia proprio questa: la perdita di quell’elemento sociale dell’arte per cui era necessaria, era utile.
In sintesi oggi si dice che si è trasformato il settore di intervento, per cui esistono delle arti “sociali” tra cui la televisione, per esempio, o il linguaggio dei mass media in generale, che indubbiamente è un nuovo linguaggio, che non ha escluso quello vecchio anche se i termini nuovo e vecchio andrebbero sviscerati in un seminario di arte visiva.
Ricordo che una volta, quando eravamo giovani, si discuteva su astratto e figurativo, oggi fa un po’ sorridere, ricordo feroci contrapposizioni di artisti, e non ci rendeva conto che invece andavamo incontro ad una società che sommava tutte le forme espressive proprio perché diventava profondamente democratica e dialettica, mentre noi andavamo ancora alla ricerca di quello che escludeva l’altro.
Quel dibattito era frutto di una cultura e di una tradizione che oggi non avrebbe senso, però esiste la definizione esatta di quello che potrebbe essere il ruolo delle arti visive tradizionali, quindi fatte con il pennello sia pure nelle forme più progredite, con strutture di linguaggio che non sono quelle tradizionali. Rimane però la contraddizione di una cultura studiata come se nulla fosse cambiato, ecco perché mi sento di volta involta di dover intervenire in settori che non siano solo quelli del campo pittorico.
Il prof. Mazzariol ricordava come io, in qualche misura, sono fuori da quella vita culturale, cittadina, che voi conoscete perché sento la necessità di non impegnarmi in un dibattito che considero sterile se non fa parte di meccanismi sociali e politici che in qualche modo invece mi riportano a cogliere e a confrontarmi con esperienze al di fuori del nostro mondo.
Per me il nostro mondo è molto chiuso, limitato, per una serie di questioni che si legano a come si è andato evolvendo il mondo delle arti visive, il meccanismo della critica che ha perso e poi riconquistato delle posizioni.
Per molto tempo ho fatto tutto da solo: quadri, presentazioni, tutto, ma non perché pensavo che il critico non fosse capace di fare il suo lavoro, piuttosto perché mi sembrava, e in qualche modo credo che i fatti mi diano ragione, che la critica andasse piuttosto ad una stabilizzazione del suo ruolo.
Ero convinto che anche la critica vivesse una sua crisi di identità, non in modo strumentale, ma proprio per l’esigenza di sopravvivere rispetto ad un elemento come la pittura che la società andava sempre più relegando ad elemento di parte, particolare.
Pensiamo l’effetto che la critica produce sulla possibilità di essere conosciuti del mercato e quindi di entrare in un certo meccanismo. Produce degli effetti che alla lunga possono essere positivi o negativi, secondo la qualità, ma che comunque sono indispensabili per entrare nel meccanismo della conoscenza.
Mi è piaciuto molto che il prof. Mazzariol abbia ricordato i miei trascorsi in cui ci si conosceva solo per rapporti di pittura, cioè di oggetti.
L’oggetto veniva identificato da chi aveva la competenza e la sensibilità, indipendentemente da quella macchina che in qualche modo è arrivata per lunghi anni a soffocare, io credo, la possibilità di conoscere e far conoscere realmente l’opera d’arte in quanto tale e non in quanto prodotto di un mercato commerciale.
Ringrazio le gradite ospiti, erano moltissime, che sono venute a trovarmi nel mio studio, piccolissimo, dove abbiamo parlato poco di pittura e di più del perché si produce pittura e vorrei condividere anche con gli altri i temi che abbiamo affrontato.
Nel guardare le mie opere qualcuno ha espresso un commento in termini di paura, “impressione”: inviterei ad essere meno emotivi e più razionali nella valutazione di tutto ciò che ci circonda perché in realtà quello che ci circonda è sempre, se reale, carico di effetto, tanto da interessare.
Io non sento come angoscianti le opere che presento, perché il contenuto, formale più che sostanziale, può essere considerato comune e normale, esattamente come tutta una serie di notizie televisive che ci passano sotto gli occhi mentre continuiamo a mangiare senza “impressionarci”.
Evidentemente esiste un’assuefazione al modo di percepire l’immagine o la parola, pensiamo agli ultimi fatti della Palestina ma anche agli incidenti stradali, e l’arte visiva statica rappresenta invece la capacità di riflessione che ferma quel momento, l’elaborazione raffinata che diventa come un’azione capace di bloccare il momento perché lì scatta la capacità dell’uomo di dirsi la verità.
La televisione rappresenta per me una delle fonti di maggiore ispirazione: cerco di cogliere un momento di azione scenica e di bloccarla nel momento in cui la coscienza percepisce il senso della tragedia. Ma questo non può essere definito angosciante, si tratta invece di un momento rilevatore delle proprie debolezze, della propria incapacità a definire il ruolo che ognuno di noi ha rispetto alla società, è un’accusa alla incapacità di essere solidali, di essere attenti.
Significativo è in questo senso anche il mezzo che adopero. Qui ho portato solo alcune cose e delle più piccole, perché io vado dal molto molto piccolo al molto grande, probabilmente per una necessità di misurarmi nelle due maniere, cioè il rapporto per quello che ti sovrasta e il rapporto per quello che domini, ma in genere il procedimento che uso da diverso tempo è una fotocopia ingrandita o diminuita di tutte le misure. Uso la stessa fotocopia, non dipingo più l’oggetto proprio per non perdere tempo a raccontare.
Non serve più raccontare, non ha più senso per me dipingere l’oggetto perché venga riconosciuto nella forma che tu vuoi dare. Io voglio dare solo il momento, per cui la stessa forma ripetuta per quindici, sedici, diciotto volte, (in una delle ultime mostre che ho fatto lo stesso soggetto è stato ripetuto fino all’infinito) che non ha niente a che vedere con la ripetitività di Wharol e della Pop-art, ma mi serve perché lì intervengo per far capire come lo stesso fenomeno, lo stesso atto, lo stesso meccanismo, proprio nel momento in cui io intervengo, produce un effetto.
Un ultima osservazione: il procedimento che mi spinge è quello di avere dagli altri lo stimolo; se io non trovo qualche cosa che mi parla, qualcosa che mi comunica, qualcosa che mi interroga, io non sono capace di intervenire.
Voglio dire che uno dei grandi difetti dell’artista è di inventare qualche cosa per proporla agli altri; io voglio che siano gli altri a darmi qualcosa, a sollecitarmi, per cui dopo io prendo fiducia e rispondo, spiego loro delle cose.
Si tratta di un procedimento di gratificazione, più esattamente di riconoscimento che io faccio nei confronti delle altre persone e degli altri avvenimenti.
Un avvenimento mi urla qualcosa, mi dice qualcosa, mi racconta qualcosa, quindi mi chiede qualcosa. Mi si presenta, chiede, se non è una forzatura direi che mi chiede aiuto. Un avvenimento: lo colgo, lo prendo sul serio, lo riconosco e dunque intervengo.
Per me è come un rapporto fra due persone, che si aprono e comunicano tra di loro. Ecco perché l’oggetto è sempre ripetuto, ma se guardate l’oggetto non è mai uguale, perché l’intervento su ciascuno di noi dello stesso avvenimento produce effetti differenti.
Ultimissima notazione, di stampo più tecnico: nelle mie opere, anche le più crudeli, si può vedere una raffinatezza di costruzione. Non accetto per me il giudizio di espressionismo, per esempio. L’espressionismo è una pittura immediata, che produce lo sfogo dell’oggetto, per cui quanto più crudele, quanto più rozza, quanto più immediata è l’opera, tanto più produce l’effetto. La mia è invece un’opera estremamente raffinata, quando arrivo a produrre l’oggetto questo deve essere anche un bel prodotto.
Questa evidentemente è una forte contraddizione che io non mi spiego.
Non lo faccio volontariamente, esiste, e quindi questo è un elemento su cui io non riesco a dare una risposta chiara. Probabilmente la risposta è la stessa per cui quanto più gli argomenti sono tesi, pieni di angoscia, tanto più io non riesco nella vita privata ad essere né angosciato né teso. Probabilmente questa è la contraddizione: l’incapacità di trasformarmi in qualche cosa che sia, visto dal di fuori, come un prodotto drammatico.
Non credo in altre parole che l’artista sia un disperato, un angosciato, un pazzo. Di queste persone ne conosco tantissime, per il lavoro che faccio al di fuori della pittura, sono persone normalissime; cioè i pazzi, i drogati, gli angosciati, non sono artisti, sono persone normalissime.
La tragedia nell’uomo è normale, mentre l’artista, a mio modo di vedere, non è normale, nel senso che è più intelligente della norma. Una delle cose che insegno ai miei scolari è che un artista deve essere colto e intelligente, altrimenti non potrà mai essere artista; potrà fare oggetti di un certo valore, ma non essere un artista. Questa è la mia filosofia…
…E’ in atto uno scontro generazionale e riguarda ovviamente anche il perché della pittura.
La società occidentale è costituita da vecchi più che da giovani e questo è un fatto inedito nella storia dell’umanità che non a caso è al centro della riflessione sull’esistenza e sul divenire.
Da un certo punto di vista anche la pittura è una sopravvivenza del passato: io ho imparato a dipingere da bambino e non avevo a disposizione altri mezzi espressivi, ma oggi come insegnante non posso ignorare l’esistenza dei mezzi audiovisivi e soprattutto il fatto che i bambini crescono in un mondo di immagini audiovisive.
Oggi nessun artista può eguagliare il ruolo di Michelangelo o di Tiziano rispetto alla società del loro tempo e neppure gli oscuri artisti che hanno lasciato le loro opere nelle chiese dei paesini della Val di Sole e della Val di Non, altari lignei con figure scolpite e dipinte in oro (fino a trecento), che ho visitato da bambino, la cui opera era certamente necessaria alle piccole società in cui vivevano.
Tutto il popolo è passato per tre giorni e tre notti davanti alla Maestà di Duccio di Boninsegna prima che l’opera venisse pagata all’artista e il denaro non è qualcosa di venale ma rappresenta il riconoscimento sociale e quindi l’investimento della società.
Vale lo stesso per i milioni di dollari che oggi vengono pagati per un film e io auguro a ogni giovane che un ente pubblico o privato decida di investire sulla sua opera perché questo rappresenta un riconoscimento di valore, di utilità sociale.
In questo momento in realtà il denaro rappresenta unicamente il legame con il mercato e l’artista cerca disperatamente spazio in questo contesto che non riguarda assolutamente la sua necessità di “sentirsi utile”.
Il mio amore per il passato nel suo intimo legame con il presente è, a mio avviso, una necessità per l’artista che deve essere controllato, intelligente, colto perché deve avere la capacità di conoscere e dominare razionalmente le proprie emozioni per tradurle nell’opera.
I grandi artisti, le cui opere ci emozionano, Piero della Francesca, Brunelleschi, Donatello, erano uomini di grande cultura, non erano delle persone che si mettevano davanti al quadro con il fuoco sacro come le ultime propaggini romantiche ci hanno fatto capire.
Bisogna essere sempre lucidi rispetto alla condizione che si sta vivendo.
Considero un tragico errore il modo di lavorare di certi artisti che accettano di produrre o modificare le loro opere in relazione al mercato.

La lezione continua con la presentazione di alcune diapositive dalla mostra “Sadici Sovvertimenti” e con il dibattito che queste provocano fra gli studenti
… In genere non faccio mostre di quadri. Individuo un soggetto, un tema e lo sviluppo.
La mostra presentata al museo di arte contemporanea di Ferrara: “Sadici Sovvertimenti” si compone di un centinaio di opere e parte da una premessa legata al tema della violenza in De Sade: le 230 giornate di Sodoma e quindi il concetto del potere, di come agisce il potere e quali sono gli effetti del potere.
Per toccare solo il tema pittorico si può notare che i soggetti sono di tutti i tipi, qualsiasi cosa io trovi che mi interessa per strada, sul tavolo, per terra diventa oggetto di intervento perché vuol dire che quella cosa mi ha chiamato, mi ha chiesto qualcosa e io gli do la risposta. Si apre un dialogo fra pezzi di carta, fotografie, scoth in cui si legano tutti questi elementi, l’insieme mi sfugge completamente, non so dare un giudizio non so il perché, non riesco a definire il senso del segno. Tutto nasce e viene disposto… l’unica cosa di cui sono convinto è che io quando costruisco oggetti non sto lavorando. Io ho già lavorato prima. Infatti quando mi occupo di altre cose -insegnare, fare politica- penso, penso, penso e ad un certo momento le metto giù.
La fase in cui viene eseguito l’oggetto non è la fase artistica. Quella è la fase in cui io devo testimoniare che ho prodotto tutto un processo culturale, chimico, sociale che si conclude in quel momento. Il momento in cui l’oggetto è costruito non mi interessa più. L’oggetto è finito, posso discutere di oggetti ma lui è finito, non mi da più nessunissima emozione.
…mi si chiede se nel fare l’oggetto c’è il momento del controllo
rispondo che è solo controllo. Gli Oggetti di questa mostra ( sempre “Sadici Sovvertimenti”) li faccio in pochissimi minuti, uno dietro l’altro, lavoro con 8, 20 pezzi tutti insieme fino alla fine dell’oggetto. Uno sa che non è finito e poi c’è il momento che è finito. Da momento in cui dico è bello, mi piace, l’oggetto stai lì, basta! per me potrebbe andare con le sue gambette in giro per il mondo, non mi interessa più. Il difetto di questo è che quando uno costruisce una mostra, in questo caso sono 200 pezzi, se ne tolgo qualcuno non succede niente, nessuno se ne accorge, ma nella mia logica si.
… perché nelle mie opere ci sono pezzi di scritti miei o di altri
rispondo che sono condizionamenti legati all’epoca, al momento …
in questo caso (sempre “Sadici Sovvertimenti”) i pezzi scritti erano legati al tema che avevo scelto che era lo sviluppo del potere attraverso tutta una serie di schemi che ho costruito quindi uno degli elementi che determina la costruzione del potere è produrre dolore, quando l’uomo comincia a soffrire la società comincia a costruire il suo potere. Quando l’uomo comincia a rifiutare dio la società comincia a costruire il suo potere. Per dio intendo un potere extra umano, che è sopra all’uomo. Quando l’uomo ha paura la società comincia a costruire il suo potere. Gli scritti sono messaggi, quando l’immagine è conclusa il messaggio è aggiuntivo per far capire che comunque quello che voglio fare non è un oggetto ma è una comunicazione. Nel catalogo ci sono una serie di brani tratti da De Sade, di poesie, interventi diversi. Non ho limiti di linguaggio anche quando faccio cose molto grandi uso legni, stoffe, carte, scritture, non c’è una adesione ad una estetica o ad un filone particolare. Qualunque cosa raccolgo per strada che mi possa servire è necessaria all’oggetto che viene prodotto. Nel caso dove il messaggio dice “paura” o “solo me” quello è un messaggio lanciato in un momento in cui la partita si sta chiudendo cioè io che lavoro in politica sono convinto che qualsiasi partito politico qualsiasi meccanismo nel momento che comincia a produrre effetti per la società produce soltanto un meccanismo di castrazione, di condizionamento, di limite e quindi è un’altra contraddizione che mi piace vivere. Da un lato produrre l’effetto negativo che è il potere dall’altro lanciare un messaggio cercando insomma di avvertire… fidatevi pure di me però…
… A me non piace dipingere, mi piace l’effetto pittorico… la pittura è qualcosa di molto faticoso, se potessi avere un po’ di schiavi come Tiziano che mi fanno i quadri a me basterebbe firmarli. Cioè spiegarglielo il quadro ma farlo è una fatica… e questo mio sentire non è una cosa moderna; non mi risulta che Raffaello finisse i suoi lavori, da piccolo ha dimostrato che se lo poteva permettere. Ho provato a farlo anch’io ma non ho trovato gli schiavi. O è cambiata la società o non valgo come Raffaello e… comunque c’è sempre speranza.
mi si chiede: sull’oggetto che sceglie lei interviene in modo tutto suo come a corruzione dell’oggetto, un intervento per indurre l’oggetto a dire qualcosa di diverso da quello che voleva dire l’oggetto stesso
Rispondo si. Quando dico che l’oggetto mi lancia un messaggio è un po’ come i rapporti fra le persone, uno conosce una persona è simpatica, attrae ti lancia un messaggio. In questo mi sento artista, mi piace intervenire e rovinare quel messaggio con la mia personalità con la mia capacità di intervento e quindi produrre un effetto. L’effetto può essere devastante, entusiasmante, deprimente, è come un rapporto tra due persone, in questo caso tra un oggetto e me. Ma stiamo molto attenti, non guardatemi solo come colui che prevarica perché per primo ha cominciato lui, perché se lui mi lasciava in pace, se lui non si poneva davanti a me e non si faceva riconoscere, lui avrebbe potuto restare un pezzetto di carta nel cestino, un pezzo di scotch ecc. il messaggio, se mi è concesso di usare questa parola, è che io voglio dare molta importanza a quello che ci circonda e penso sia di grandissima utilità. Non c’è bisogno di andare a cercare chissà dove basta guardare, stare attenti alle persone e alle cose che ci circondano e immediatamente si affina una capacità di voler creare questo rapporto. Concluso il rapporto rimane in sé l’oggetto rapporto. Io probabilmente ho altre curiosità.
Alla domanda: non le interessa fingere la realtà cioè la mimesi e quindi anche la pittura in senso tradizionale e quindi mettersi in ascolto della realtà ed usare l’oggetto per…
Si, questo l’ho capito dopo che per anni ho sostenuto la necessità della mimesi. Mi sono letto tutto Lenin e tutta la teoria del realismo socialista per capire ‘sta “mimesi” e dopo, quando finalmente l’ho capita l’ho messa in un cassetto.
Il problema della composizione o viene o non viene, non so dare una spiegazione migliore, perché l’ho acquisito in anni e anni di lavoro, il prof. Mazzariol si ricorderà delle mie prime opere quando costruivo le mie opere alla Mondrian, anche se non erano figurative, spostavo di un millimetro una testa un piede, un ginocchio, una pietra finché l’opera fosse perfettamente equilibrata evidentemente questo grosso lavoro che dava alle mie opere questo senso di monumentale, di costruito, mi è rimasto nel sangue e oggi riesco a produrre composizione senza dover andare alla ricerca di questi equilibri che certe volte diventano faticosi ed anzi estenuanti per loro.
(mostrando una diapositiva di “sperma” da “Sadici Sovvertimenti”) …questi sono dei pezzettini di carta presi da un cestino e messi in un sacchettino di plastica, …perché è nata l’idea di questo sperma, fa parte anche esso del meccanismo della storia sul racconto di De Sade perché è la capacità di produrre che viene impedita, in questo caso lo sperma viene sigillato dentro un sacchettino e quindi non è più produttivo. E’ uno dei miei elementi della costruzione del potere, dare all’uomo la possibilità di creare e poi metterlo in una bacheca, in una struttura in cui non possa più produrre nulla.
(mostrando la diapositiva di “sole” da “Sadici Sovvertimenti”) …questa che vediamo è una fotocopia su cui intervengo, il soggetto non ha bisogno di commenti, non mi sembra drammatica, chiedo scusa ma insisto, secondo me è pieno di sole di luce di voglia di produrre calore che poi per il fatto che sia impiccato non credo che non abbia più diritto di fare delle comunicazioni perché allora escluderemmo tutte le persone che per la loro natura, perché si presentano male non hanno più diritto ad esprimere lo stesso il piacere di vivere… infatti si chiama sole.
Forse è una contraddizione ma credo che la contraddizione debba essere alla base di ogni ragionamento artistico e anche politico.
Viene chiesto: …quello che hai rappresentato come un campo di sterminio è terribile o no? La realtà in sé è terribile, perché rappresentata diventa non più terribile?
Per lo stesso motivo per cui tu ci convivi… la morte in sé è o non è terribile? Non lo so, la morte per me fa parte della vita, la morte non è qualcosa che viene dopo, lo star male non è qualcosa che viene oltre lo star bene, fa parte della vita. Allora se fa parte della vita, la vita in sé è uno star bene e uno star male, dunque la morte e quel senso di tragedia non può diventare il soggetto di tutta la mia vita, è un elemento un frammento della mia vita, non posso farmi condizionare, ma questo avviene perché se tu vivendo vedi un uomo per strada che muore tu gli corri dietro cerchi di aiutarlo, ma se ne vedi due e poi ne vedi tre e poi vedi una fucilazione e poi ne vedi 50, 200, 600… come la notizia che ascolti alla televisione di un aereo che cade: morti 500… oh poveretti! Ha lo stesso impatto della notizia della morte di un solo bambino…
Studente: secondo me c’è una spiegazione a questo: il discorso è che il messaggio televisivo, dei mass media oggi è che la notizia, l’informazione che noi ascoltiamo, oltre un certo limite, diventa violenza nel senso che non è più assimilabile ed è per quello che noi siamo piatti di fronte a certe notizie. Di fronte all’arte forse ci si pone in modo diverso, è in questo forse la sua utilità, è per questo che di fronte all’arte ci sembra terribile quello che attraverso la televisione non ci sembra tale…
… mi va bene che mi diciate queste cose perché vuol dire che la voglia di combattere, di avere delle sofferenze e delle soddisfazioni, cioè la voglia di costruire in positivo, c’è.
Quando io produco il pezzetto di carta con il messaggio scritto io mostro la mia coscienza rispetto all’esperienza di vita che ho fatto: di artista, di uomo, di uomo politico. Non ho più molte illusioni, non ne ho, nel momento in cui scrivo il messaggio vuol dire che voglio sapere da parte vostra se il mondo che viene dopo di me può darmi delle speranze, altrimenti non manderei neanche il messaggio.
Quando pretendo che il senso della tragedia venga reso più dolce vuol dire che spero che questa tragedia non sia il simbolo di tutte le generazioni che verranno dopo di me anche se non sono ancora convinto che la vostra preoccupazione di essere forti, sanguigni e quindi angosciati sia quello che sto dicendo io e cioè un segno positivo. Mi auguro di sbagliarmi.
Da come stanno andando le cose rispetto alle arti, il fatto che l’uomo comunque mangia, beve dorme da sempre, io credo che il messaggio che riesco a darvi è un messaggio disperato ma è una disperazione che non può essere di autocompiacimento, ecco ciò che voglio evitare nel quadro è l’autocompiacimento. Satin mi piaceva tantissimo, gli espressionisti mi piacevano tantissimo ma poi li ho rifiutati tutti perché erano “io grido”, “io urlo” e dopo? La mostra di Munch è stata una grandissima delusione quando l’ho visto dal vero a Milano, mi ha creato tutto un procedimento culturale, interiore, umano, che ancora oggi non riesco ad assorbire, cioè è quello che non voglio fare. Non voglio schoccare non voglio colpire, perché nel momento in cui tu vedi sangue, donne divaricate… non voglio suscitare in te quello che accade con il messaggio televisivo, assuefazione e quindi ripulsa, voglio che comunque dentro al messaggio ci sia un senso di disperazione ma non di distruzione. Non so se il ragionamento può essere comprensibile, penso di si; accettabile poi è questione personale.
Uno studente: …io non capisco, vedo confusione fra i termini come si pone di fronte al messaggio e poi a un certo tipo di creazione di chiaro scuri
…Io accetto il concetto del tutto e il contrario di tutto. Mi pare sia quello che sostanzialmente contestate ed è invece quello che mi appassiona di più. E’ vero che io certe volte sottolineo di più un aspetto e immediatamente dopo lo contraddico. Credo che su Michelangelo rispetto a questo sono stati scritti volumi. Basta pensare ai Prigioni che si possono vedere sia come messaggio e quindi con tutto il ragionamento che li produce, sia come elemento di costruzione estetica. Se si pensa a tutta l’arte del trecento costruita su una filosofia scritta a priori perché poi l’oggetto doveva diventare soggetto di produzione di conoscenza per determinati fini. E qui abbiamo il prof.
. Mazzariol che potrebbe aprire una discussione molto interessante su come non esiste un modo di fare pittura o di fare arte se non a seconda delle epoche, dei tempi, dei momenti, delle necessità. Ci sono state delle regole e queste regole hanno prodotto l’oggetto e c’è tutto e il contrario di tutto e io difendo questa tesi perché Rembrand non è mai andato via di casa sua, mai, eppure a fatto un’arte che esce da ogni schema locale. Si dice che la gente deve leggere, uscire, viaggiare conoscere, allora come mai Rembrand ha conosciuto, visto e prodotto senza muoversi mai dal suo paesello? Quindi non c’è una legge, una regola.
Queste sono le mie leggi, le mie regole. Non sono venuto qua ad insegnarvi cosa dovete fare. In questo caso credo che ci sia stata, non so se è accaduto anche altre volte, una leggera deviazione rispetto al fatto che gli artisti quando intervengono hanno sempre un punto di vista, infatti è venuto fuori il suo punto di vista e il suo punto di vista, il mio punto di vista.
…Io lo dico per me ma penso che per voi sia stato molto più educativo cogliere quale scontro può esserci fra la critica e l’artista, cioè l’artista in sé quando pone delle idee è sicurissimo di sé, è così sicuro da prendere anche delle cantonate terrificanti però sono proprio quelle cantonate che gli permettono di essere originale, di essere completamente differente da tutti gli altri. Ecco perché l’omogeneizzazione di un ragionamento spesso può produrre solo una scuola, cosa che io rimprovero ai miei grandi maestri. Ricordiamoci perciò che la funzione delle cose che si fanno è rispetto la posizione di chi domani dovrà fare critica dovrà capire, entrare nella logica dell’artista, nella sua disponibilità a capire e non c’è un metodo ma esistono dei modi differenti di produrre l’oggetto per cui tutte queste contraddizioni producono questi oggetti, altre contraddizioni producono altri oggetti.
Uno studente: …tra l’artista e l’opera dovrebbe esserci un rapporto molto forte, invece lei prima parlava delle sue opere con un distacco incredibile, non capisco questo poco amore, poco sentito come lavoro
… può darsi che io menta, può darsi che io voglia conservare tutte le mie energie per produrre altri oggetti, io non mi voglio innamorare dell’oggetto perché odio l’artista che riproduce sempre la stessa cosa. Metti i grandi artisti di grande fama che passano 60 anni della loro esistenza, innamorati del loro oggetto, a riprodurlo sempre, girandolo e rigirandolo, non entro nel merito se quello è o non è un artista, lo riconosco come artista ma quel modo di produrre non mi piace, mi fa paura, perché allora venderei scarpe, farei meglio e più soldi probabilmente. Per me produrre l’oggetto è continuamente sapere che sto ritornando a vivere, che sto scoprendo cose nuove, che oggi sto esplorando il Canada e domani sono nell’Africa Orientale.
Uno studente: … ma le da gioia questo?
non credo che dia gioia a nessuno vedere che stai invecchiando, che hai sempre meno energie, meno tensioni, sempre più paure, sempre più incertezze…vedo certe parti di Mestre, ad esempio, che potrebbero essere affrescate da 10 di voi per cui il Comune potrebbe darvi 2 miliardi e affrescare Mestre, no si danno 40 miliardi per fare cose pazzesche. Tutta questa voglia di fare, queste contraddizioni che senti dentro di te, questa capacità, questa lucidità di poter produrre e invece vedi che la struttura sociale a cui appartieni non te lo riconosce… perché mi dovrebbe dare gioia, anche perché non credo che ci sia un piacere finale. Diciamo pure che questo è il mio carattere, non credo sia una lezione per tutti, è il mio carattere, il mio modo di vedere la vita priva di valori che in qualche modo possano essere stabilizzati. Io ho cambiato casa 26 volte, cioè non riesco a provare il piacere di costruire delle cose che possono produrre sempre lo stesso prodotto.
Io sarò diventato vecchio troppo rapidamente, mentre altre persone che sono più anziane di me si sentono ancora giovani, ma sento fortissimo lo scontro generazionale, il cambiare della società. Vedo questa società talmente diversa dai miei tempi, dal mio modo di pensare. Con questo non voglio dire che io ho ragione e i giovani hanno torto, anzi, chi mi conosce sa che dico proprio il contrario.
La mia attenzione è proprio proiettata a vedere che cosa fanno queste nuove generazioni perché comunque hanno ragione loro, qualunque cosa dicano, anche qualunque boiata dicano, anche se dicono delle cose per me inaccettabili: hanno ragione perché sono loro che hanno l’energia di produrle quelle cose, sono loro che hanno la possibilità di realizzarle e questo anche nel campo delle arti visive, che è un settore molto limitato di questo scontro. Ecco perché io perdo ancora tanta parte del mio tempo in politica, perché lavorare solo nella pittura è lavorare in un mondo piccolo…