Ca' Pesaro

Ca' Pesaro

UN GAUGUIN A CA' PESARO. 'Le Cheval blanc' dal Musée d'Orsay di Parigi.

Il dipinto

L GAUGUIN (1848 – 1903)
Il cavallo bianco / Le Cheval blanc (1898)
Parigi, Musée d’Orsay

Il dipinto

Fra i quadri dipinti tra il 1898-1899 vi sono le opere più serene, forse più autenticamente tahitiane della carriera di Gauguin.
Soprattutto Le Cheval blanc (esposto fino al 23 gennaio nella sala 10 di Ca’ Pesaro), ispirato a un particolare del fregio ovest del Partenone, raggiunge nell’apparente semplicità un carattere arcano; Gauguin avrebbe “preso in prestito” non solo l’immagine del cavallo di Fidia, ma anche il bianco che nella cultura polinesiana rimanda al sovrannaturale e all’idea di morte e potere: la fonte classica si combina con il simbolismo del colore.

Le Cheval blanc non è bianco ma è piuttosto il risultato di un amalgama di colori che si ritrovano nella tela, i più chiari.
Il cavallo è sbiancato più che bianco, seguendo un po’ le teorie ottiche degli impressionisti tra i quali Pissarro che aveva iniziato Gauguin alla pittura.
Nella tela, il punto di vista rialzato, già caratteristico del periodo di Pont-Aven, pone il paesaggio sul piano del dipinto, e il motivo sinuoso dei rami azzurri conferisce ai cavalieri nudi una lontananza senza tempo: è un esempio del Gauguin migliore, una perfetta e difficile fusione di poesia e decorazione.

“I colori sono quasi derivati e quasi complementari: è un accordo di dissonanze. Nel ruscello l’acqua è di un azzurro che tende al viola con luci gialle che tendono all’arancio. […] Il cavallo bianco è di un grigio sensibile, delicato, in cui si riflettono tutti i colori attornianti. In quell’abbassamento di tono, c’è una delicatezza sensibile, fatta di finezza e di quiete, c’è un suggerimento di luce, senza che l’effetto di luce sia realizzato appieno. Anche l’effetto prospettico non è realizzato. Ne risulta un’incertezza, ch’è l’incertezza delle ore calde, dei luoghi solitari, della vita vegetativa. E i colori intensissimi non eccitano ma abbagliano, e inducono a una calma che sa di letargo” [Lionello Venturi, 1934].